Oggi è l’anniversario della morte di un grande uomo. Un anno fa ci lasciava Nelson Mandela, un simbolo, una guida, la personificazione dei diritti umani che tutti noi dovremmo sempre ricordare.
Ho scritto questo articolo un anno fa, per Graffio Magazine, di getto, pensato durante un tragitto nel traffico fiorentino, mentre ascoltavo Mandela Day, una canzone che mi ricorda i tempi del liceo. Voglio ricordarlo così, con il sorriso…ha donato tanto alla nostra in-civiltà, anche nella musica.
Tutto inizia nel 1980. Peter Gabriel è il primo artista a dedicare un brano alla vicenda dell’Apartheid in Sudafrica cantando la figura di Steven Biko. Biko era un leader nero non violento morto in carcere nel 1977. Da questo momento in poi il rock diventa uno strumento potente e pacifico per promuovere una lotta chiusa ufficialmente 10 anni dopo.
Nel 1984 i primi a nominare Nelson Mandela sono i The Special AKA con Free Nelson Mandela. Il loro singolo è prodotto da Elvis Costello e arriva al nono posto in UK. Il ritmo in levare degli alfieri dello ska è allegro e inneggiato da cori afro: si balla per cambiare il mondo. Solamente un anno Little Steven, chitarrista della E-Street Band di Bruce Springsteen, aggrega intorno a sé il mito del rock nel progetto Artists Against Apartheid ed una serie di stelle di prima grandezza come Bob Dylan, Lou Reed, Ringo Starr, gli U2, Keith Richards, Ronnie Wood, fino a Peter Gabriel che grida «No more apartheid. Il progetto diventa un album intitolato Sun City. Il titolo è provocatorio e urla contro la lussuosa struttura per il divertimento dei bianchi sudafricani: il Sun City, casinò and resort.Nel 1985 Stevie Wonder, dopo un anno di lotte con il suo collaboratore Lee Garret e dopo aver vinto un Golden Globe e un Oscar come migliore canzone, riprende i diritti di “I just called to say i love you” scritto per il film “La signora in rosso” e la dedica a Nelson Mandela. Poco più tardi, un signore di nome Miles Davies compone Tutu, un album concettuale di fusion interamente dedicato alla causa sudafricana. Il titolo è un omaggio a Desmond Tutu, primo arcivescovo anglicano nero di Città del Capo. Nella tracklist c’è «Full Nelson». Davis era nato in Illinois, un luogo “black” dove Mandela è visto come un eroe. Una Curiosità:
questo album doveva essere realizzato con Prince, che da ultimo rifiutò la proposta e venne sostituito da Marcus Miller. Miller per non essere da meno decise di suonare tutti gli strumenti fuorché la tromba, fece gli arrangiamenti e ne fu il produttore.
Stesso anno, 1986 e Youssou N’Dour titola il suo nuovo album Nelson Mandela.
E ancora Johnny Clegg e la sua Asimbonanga, che in lingua zulu vuol dire “non l’abbiamo visto”, riferito al fatto che Madiba era ancora in prigione da oltre vent’anni… e pure Vusi Mahlasela dedica a lui una canzone: When You Come Back. Entrambi vennero arrestati e proibiti di tenere concerti.
Arriviamo al 1987, è il momento del trobettista jazz sudafricano Hugh Masekela e la sua Bring Him Back Home, pezzo che diventerà l’inno dei movimenti per la liberazione di Mandela.
Torniamo a Mandela Day, il disco che mi ha dato l’idea e che rimane per il tributo più bello e più famoso. Scritto dai Simple Minds nel 1988 in occasione del Suo settantesimo compleanno, anticipa di due anni la Sua scarcerazione. Il brano dei Simple Minds fu scritto appositamente per quel palco. Seguirà un album intero di protesta politica, Street Fighting Years, che include Belfast Child, This is your land e Biko.
Nello stesso anno a Wembley, i big della musica organizzano un mega concerto che viene trasmesso in 67 paesi e visto da 600 milioni di persone.
E’ un anno importante e pieno di musica che inneggia Madiba. Anche Santana decide di dedicarGli una canzone e durante il Montreaux Festival duetta con Wayne Shorter con la sua Mandela.
Eddy Grant risponde e fa ballare il mondo con Gimme Hope Jo’anna.
L’anno successivo è il rap a interessarsi di Lui e della lotta in favore dei diritti umani. Ci sono i Public Enemy ed il loro potente rap. Prophets of Rage inneggia un cambiamento radicale nella lotta contro la disuguaglianza, passando dalla non violenza all’attivismo. Ed anche Tracy Chapman segna il Suo nome nella lista con Freedom Now, un singolo estratto dall’album Crossroad. Brenda Fassie invece, la regina del pop africano, lo chiamerà con orgoglio e affetto My black president in un suo singolo dello stesso anno. Arriviamo finalmente al 1990, anno della Sua scarcerazione.
L’11 febbraio del 1990, dopo 27 anni di prigionia, Nelson Mandela torna uomo libero.
Londra ospita ancora una volta un concerto memorabile nominato “An International Tribute for a Free South Africa”. Stessa città, stesso stadio: Wembley.
Entra Mandela e ci sono 8 minuti di assordante ovazione, non si riesce ad iniziare il concerto.
Ci sono ancora i Simple Minds e con loro Lou Reed, Neil Young, Peter Gabriel, Tracy Chapman, Natalie Cole, Jackson Browne, Chrissie Hinde, Bonnie Raitt, Anita Baker…insomma un sacco di gente a cantare con Lui e per Lui.
Dopo questa data c’è un momento di empasse nel quale viene stampato solamente un cd interessante: Son of Africa and Father of our Nation, Essential music of South Africa. La soundtrack la scrive un certo Cedric Samson, noto a molti nel mondo per essere un virtuoso della batteria.
Arriviamo all’ultimo grande evento al Green Point Stadium di Città del Capo: è l’anno 2003 e il concerto si chiama 46664 Concert. Questo è il numero che Mandela aveva impresso sulla sua divisa carceraria.
Questa volta è lui stesso il promotore dell’evento nato per coinvolgere le rockstar in una campagna contro l’Aids in Africa. Partecipano The Edge degli U2, Bob Geldof, Robert Plant, Peter Gabriel, Anastacia, Zucchero. Bono e Beyoncé duettano in American Prayer. Lo stadio è in delirio. Tutto il mondo è coinvolto per la terza volta in diretta. Nessuno come Mandela era mai riuscito a coinvolgere un numero così alto di persone comuni e artisti, e convergere la musica verso un ideale. Alla notizia della sua morte, una moltitudine di artisti si sono espressi con commozione.
Curiosando per il web mi hanno colpito due notizie. La prima di Bono che ha scritto un lungo intervento, sensibile, toccante, per Time dal titolo “The man who could not cry”, “L’uomo che non poteva piangere”. Racconta questa vicenda:
“Le risate, non le lacrime, erano la risorsa cui Madiba si affidava più spesso. Tranne in un’occasione, quando quasi lo vidi scoppiare a piangere. Eravamo a Robben Island, nel cortile fuori dalla cella nella quale aveva trascorso 18 dei 27 anni passati in prigione. (…) Uno dei suoi compagni di cella mi disse che il risultato per aver lavorato nella cava di calce non era la cecità che può risultare subendo tutti i giorni quel riflesso bianco. Mandela poteva ancora vedere, ma i dotti lacrimali danneggiati dalla polvere l’avevano lasciato incapace di piangere. Nei momenti di dubbio o di rabbia, non poteva produrre lacrime. Nel 1994 si sottopose a un intervento per sistemare la cosa. Poté tornare a piangere.”
La seconda è dello stesso Mandela. Gli chiesero in un’intervista quali film avesse visto in carcere. Rispose che molti film erano vietati, e che la sua unica vera distrazione televisiva erano i musical, una passione per la Musica che gli sarebbe rimasta per tutta la vita.
Concludo con il forte messaggio dato dalla città di Firenze che il 3 Novembre 2004 ha raggiunto un accordo tra la Nelson Mandela Foundation e l’Associazione Palasport di Firenze. In seguito a questo accordo la Fondazione dà la possibilità al Palasport di Firenze di usare il nome Mandela per i prossimi dodici anni. Un caso unico nel suo genere, poiché quasi tutte le strutture italiane di questa importanza e visibilità hanno nomi commerciali. Questa scelta di dedicare il Suo nome ha due finalità: sottolineare l’impegno e la figura di Nelson Mandela anche e soprattutto alle nuove generazioni, e promuovere iniziative di solidarietà verso specifici progetti umanitari.
Marco Solforetti
tratto da Curiosuoni, Graffio Magazine